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Johannes Bronkhorst
nel senso qui proposto, come argomenterò rifacendomi agli studi del sinologo A.C. Graham, che ha lavorato molto sulla questione della razionalità in Cina."
Graham pensa invero, e ciò è interessante, che la Cina abbia conosciuto la razionalità e vi dedica un capitolo nel suo libro Disputers of the Tao, nel quale si legge: In Cina la razionalità si sviluppa con le controversie delle scuole e decade quando esse svaniscono dopo il 200 a.C.." Egli richiama l'attenzione sui cosiddetti 'sofisti' cinesi e li mette a confronto con gli eleati greci: «Niente potreb be essere più disorientante, più dirompente della ragione che per la prima volta apre gli occhi sui suoi poteri e se li gode. Ci si potrebbe senz'altro chiedere come abbia mai fatto la filosofia ad andare oltre questo stadio, con i più antichi paradossi che ritornavano sempre a infestarla. La prima scoperta della ragione non più inibita è che essa porta inevitabilmente a conclusioni assurde. Allora perché andare oltre? I greci sono andati al di là del loro iniziale disorientamento, i cinesi non l'hanno mai fatto. È un punto su cui discutere, se il modo di mettere tutto in questione degli eleati debba essere descritto come 'disorientamento', termine che potrebbe applicarsi molto bene alla situazione cinese. Gli eleati usavano la loro ragione non solo per distruggere le basi della concezione universalmente accettata del mondo reale, ma anche per determinare il modo in cui la realtà è: ingenerata, indistruttibile, intera, unica, immobile, ecc." Va osservato qui che il filosofo indiano Nagarjuna è arrivato alla conclusione ugualmente concreta e audace che non esiste alcunché, come hanno mostrato le recenti analisi di Claus Oetke." I pensatori cinesi menzionati da Graham, d'altro canto, non
to my Respondents. III. Issues of Comparative Philosophy, in Franco, Preisendanz (a cura di), Beyond Orientalism, cit., pp. 297-314, specialmente p. 302. Per una rassegna della letteratura in cui sono riconosciute più di tre tradizioni filosofiche si vedano: ivi, p. 301; Scharfstein, A Comparative History of World Philosophy, cit., cap. 1, nota 6, p. 532.
Cfr. ancora F. Jullien, Le détour et l'accès: Stratégies du sens en Chine, en Grèce, Bernard Grasset, Parigi 1995. Cfr., per una discussione recente su questo punto, Goody, The East in the West, cit., nota 26. Interessante anche la discussione sui dibattiti tra buddhisti e taoisti in L. Kohn, Laughing at the Tao. Debates among Buddhists and Taoists in Medieval China, Princeton University Press, Princeton 1995. Le riflessioni di Graham hanno indotto J.J. Clarke ad affermare che si può sostenere plausibilmente che i modi di pensare orientali abbiano una razionalità, forse diversa per certi aspetti da quella caratteristicamente occidentale, ma non per questo meno 'razionale (Id., Oriental Enlightenment. The encounter between Asian and Western thought, Routledge & Kegan Paul, Londra-New York 1997. p. 200). Personalmente sarei più incline all'accordo con Chad Hansen, il quale in un capitolo sulle riflessioni metodologiche' che reputo vicino, per vari aspetti, alla posizione che ho preso interpretando un testo indiano (J. Bronkhorst, Tradition and Argument in Classical Indian Linguistics. The Bahiranga-Paribhasd in the Paribhdşendusekhara, D. Reidel, Dordrecht 1986, p. xiii-xiv)-osserva, in merito al punto qui in discussione, quanto segue: [...] che la filosofia cinese sia logica in un qualche senso disposizionale non è una scoperta ma una (nostra] decisione. E una decisione proporre, criticare e difendere interpretazioni in un modo particolare, ossia usando la noncontraddittorietà e la coerenza come standard criticis (C. Hansen, Language and Logic in Ancient China, University of Michigan Press, Ann Arbor 1983, p. 19). E ovvio che questa posizione metodologica non ci dice affatto fino a che punto gli stessi pensatori cinesi fossero disposti ad applicare tali standard in aree appartenenti alla tradizione, alla rivelazione, all'intuizione o alla religione.
"A.C. Graham, Disputers of the Tao, Open Court, La Salle 1989, p. 75
Ivi, pp. 75-76.
"Cfr. W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy, II. The Presocratic Tradition from Parmenides to Democritus, Cambridge University Press, Cambridge 1965, pp. 26, nota 87.
Cfr., ad es., C. Oetke, Die metaphysische Lehre Nagarjunas, in Conceptus, Zeitschrift für Philosophie, vol. 22, 56 (1988), pp. 47-64. È un peccato che Guthrie, invece di confrontare Parmenide con Nagarjuna, lo confronti con l'illusione cosmica di Maya del pensiero indiano; non stupisce che egli arrivi alla conclusione che l'India e Parmenide sono poli opposti e che in verità le motivazioni e i metodi delle scuole indiane, e il retroterra teologico e mistico del loro pensiero,
Perché esiste la filosofia in India?
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sembrano aver usato il loro ragionamento per andare molto oltre un discorso che spacchi il capello in quattro o che sia paradossale», procedura di cui sono stati accusati; certamente uno dei più famosi paradossi riguardava il 'cavallo bianco', che non sarebbe un cavallo. Sembra invece che in India e in Grecia la ragione potesse essere usata per sfidare la tradizione e altre fonti autorevoli, e che in Cina, invece, a questo strumento venisse attribuita un'importanza molto minore. Logicamente è possibile un confronto fra le situazioni in cui hanno avuto luogo le tre tradizioni. Dal punto di vista dell'importanza rivolta all'argomentazione razionale, anche nelle mani dei cosiddetti 'sofisti' il ragionamento in Cina sembra non essersi emancipato dal livello della semplice Spielerei.
Graham ricapitola la situazione nel suo articolo Rationalism and anti-rationalism in pre-Buddhist China, dove osserva: «Intorno al 300 a.C. i mohisti seriori avviano l'impresa di fondare l'intera etica mohista sull'analisi dei concetti morali. Questo è certamente un esempio dello stesso tipo di razionalismo che troviamo in Grecia, l'esempio più chiaro della tradizione cinese. Ma i sofisti avevano già provocato la reazione del taoista Chuang-tzu (ca. 320 a. C.), che avrebbe avuto un influsso molto più duraturo sul pensiero cinese. [...] La posizione di Chuangtzu rientra nell' 'anti-razionalismo' (rifiuto di considerare la ragione come un mezzo corretto per vedere le cose quali esse sono) piuttosto che nell' 'irrazionalismo' (concezione che permette a ognuno di vedere le cose come gli pare e piace). Dopo il 200 a.C. il pensiero cinese si canalizza nella direzione ortodossa confuciana (etica, pratica, convenzionale) e in quella eterodossa taoista (spontanea, mistica, esposta al discredito). La prima è spesso 'razionale', nel senso che controlla le sue sintesi con l'analisi, ma essa non è mai 'razionalistica' nel senso del pensiero mohista seriore e del pensiero greco, i quali tentano di staccare completamente la dimostrazione razionale dalle sintesi del senso comune; la seconda direzione è anti-razionalista, come il taoismo filosofico e la sua continuazione come Ch'an o Zen nel buddhismo cinese." Appare chiaro che una tradizione di indagine razionale in cui il potere del ragionamento è considerato non semplicemente utile o dilettevole, ma strumento vitale per stabilire la verità a tutti i livelli, anche quelli normalmente reclamati da altre fonti di autorità- in Cina non ha mai visto la luce del giorno. A questo proposito è interessante osservare che la logica buddhista indiana, quando fu introdotta in Cina nel VII secolo d.C.,
sono cosi globalmente diversi da quelli dei greci, che c'è poco da trarre dal loro confronto. (Guthrie, A History of Greek Philosophy, vol. II, cit., p. 53, nota 1). Guthrie e senza dubbio molti altri con luifu preda della tendenza a vedere il misticismo in tutto ciò che è indiano.
"A.C. Graham, Rationalism and anti-rationalism in pre-Buddhist China, in S. Biderman, B.-A. Scharfstein (a cura di), Rationality in Question. On Eastern and Western views of rationality, Brill, Leida 1989, p. 142 (lo stesso in A.C. Graham, Unreason within Reason. Essays on the outskirts of rationality. Open Court, La Salle 1992, pp. 98-99).
15 L'assenza di critiche sistematiche ebbe conseguenze che Landes descrisse come segue: Questa mancanza di scambio e di sfida, questa soggettività, spiega l'incertezza di ogni acquisizione e la facilità a perdere l'impulso. I saggi cinesi non avevano modo di sapere quando erano nel giusto. È stata la ricerca successiva, per lo più occidentale, a scoprire i più ispirati e riconoscere le loro conquiste. (D.S. Landes, The Wealth and Poverty of Nations. Why some are so rich and some so poor, W.W. Norton, New York-Londra 1998, p. 344). Si deve ricordare che Graham si è dedicato molto al problema che affrontiamo in questo saggio, com'è evidente, per esempio, dalle questioni che egli formulò nella Prefazione al suo Later Mokist Logic, Ethics and Science L'ideale greco di razionalità è una scoperta che è stata fatta una sola volta nella storia, oppure ha dei paralleli in India e in Cina? Ci sono episodi nella scien za orientale, o in quella greca, o in quella medievale, che anticipano in parte la Rivoluzione scientifica del XVII secolo? (A.C. Graham, Later Mohist Logic, Ethics and Science, The Chinese University Press, Hong Kong 1978, p. xi). Si consideri anche l'osservazione in C. Harbsmeier, Language and Logic,